CATANZARO, Basilica Immacolata, 3 ottobre 2021
Il Cardinale Marcello Semeraro ha letto il Decreto di Papa Francesco
di BEATIFICAZIONE delle Venerabili
GAETANA (NUCCIA) TOLOMEO e MARIANTONIA SAMA'
IL MIRACOLO riconosciuto per intercessione di Nuccia:
La mamma Ida Carella e il suo bimbo Francesco Martino (gravidanza extrauterina)
Ida Carella, di Crotone, la mamma, racconta la nascita
prodigiosa di Francesco:
Nel dicembre del 2013, ho scoperto dopo 12 anni di essere in attesa del mio 3°
bambino. Inizialmente, sono rimasta un po’ così, non ci credevo, ma da subito
tra me e me ho detto: “Signore, se me l’hai mandato io sarò felice di averlo”.
Dopo qualche giorno io e mio marito, molto contenti, andiamo dal ginecologo per
la prima ecografia ed accertarci che tutto procedesse al meglio ma purtroppo
non era così; non si presentava una gravidanza normale. Il dottore molto
dispiaciuto mi disse: “Devi abortire perché il feto si trova nella cervice ed è
in via di espulsione”. Secondo lui con probabilità avrei abortito
spontaneamente. Il giorno dopo sono andata in ospedale per avere un altro
parere, ma anche il secondo dottore mi dice la stessa cosa. Quindi mi mandano
al consultorio per richiedere un certificato per l’aborto. Io rifiutavo l’idea
ma dovevo farlo perché avrei corso dei rischi: non solo la morte del bambino ma
anche la mia.
Nel ritornare a casa mi venne in mente la mia amica Maria che era dottoressa,
la chiamai e lei subito si mise a disposizione consigliandomi il cugino
ginecologo a Catanzaro. Ho contattato subito il dottore e mi sono recata
immediatamente a Catanzaro ma l’esito era lo stesso, anche lui mi disse che
dovevo abortire e quindi mi programmava per il ricovero urgente.
Il giorno dopo (17 gennaio 2014) ero già ricoverata presso l’ospedale di
Catanzaro e tanti altri dottori mi visitarono poiché il mio caso era raro ma,
nonostante questo, tutti erano concordi sull’unica soluzione possibile:
l’aborto.
Nonostante tanti pareri, io rimanevo ferma sulla mia convinzione e sul mio desiderio
di tenere mio figlio affinché un giorno io potessi tenerlo fra le mie braccia;
perderlo per me era un dolore troppo grande. Così iniziarono a prepararmi, sia
psicologicamente che fisicamente, all’aborto che sarebbe dovuto essere
praticato lunedì, 20 gennaio 2014.
La domenica mattina (19 gennaio 2014) mi arrivò un messaggio di uno zio di mio
marito; il messaggio era una preghiera e, visto che mi trovavo sola, mi misi a
piangere. In quel momento entrò nella stanza Padre Pasquale Pitari che portava
la comunione e, vedendomi piangere, mi chiese il perché. Gli raccontai in
maniera molto sintetica tutto. Ad un certo punto Padre Pasquale mi disse: “Non
ti preoccupare, vedrai che tutto si risolverà con l’aiuto del Signore e, grazie
all’intercezione di Nuccia Tolomeo, la tua preghiera sarà ascoltata. Dì al
dottore di aspettare 2 o 3 giorni, così potremo verificare se grazia sarà
fatta”.
Quel giorno, nella stanza con me era presente un’altra signora, Fiorella, che
ha assistito a tutta la conversazione con Padre Pasquale. Nel pomeriggio, lei
ritornando a parlare dell’evento si avvicinò con una figurina di Nuccia Tolomeo
che aveva trovato nel suo cassetto appena ricoverata e mi disse che avrei
dovuto tenerla io e che Nuccia mi avrebbe protetto fino alla nascita del bimbo.
Così ho fatto. L’ho pregata e ho sperato.
Il mio cuore si riempì di gioia, ma anche di ulteriori paure in quanto non
potevo dire al dottore e a tutta l’equipe che mi seguiva di aspettare, magari
non mi avrebbero creduto. Nonostante tutto, dopo questo incontro la mia
speranza aumentava sempre di più; passai la notte a pregare e a piangere, anche
invocando Nuccia, chiedendo al Signore che avrei accettato qualsiasi sofferenza
purché salvasse mio figlio e, se questo non era possibile, di prenderlo con sé
e non lasciare a me la scelta.
Dopo una lunga, interminabile notte arrivò il fatidico giorno; il cuore mi
batteva a mille, non volevo ma dovevo farlo, speravo che il dottore mi facesse
un’ecografia per sentirmi dire che il bambino si era spostato dal canale
cervicale nell’utero, e quindi mi sarebbe stato possibile tenere il bambino, ma
non fu così. Notando il mio immenso dolore, il dottore mi disse: “Io ho
studiato bene il suo caso; ho la sua ecografia da giorni nella mia tasca; ci
rifletto da tanto. La gravidanza comporta rischi molto seri per lei. In
qualsiasi momento si potrebbe verificare un’emorragia molto forte che avrebbe
comportato l’asportazione dell’utero con un rischio elevato di morte. Pertanto,
ha 2 o 3 giorni di tempo per riflettere se andare avanti con la gravidanza o
abortire”.
Io ero incredula. Erano le stesse parole dette da Padre Pasquale. Non credevo a
quello che avevo ascoltato; così chiesi di parlare subito con mio marito e dopo
qualche minuto dissi senza pensarci due volte che ero decisa ad andare avanti.
Tornata a casa, martedì 22 gennaio feci una nuova ecografia da un’altra
ginecologa, che con decisione mi disse che assolutamente dovevo abortire,
perché continuare la gravidanza era impossibile e comportava enormi rischi per
la mia salute. Ma io continuavo a sperare e pregare Dio, invocando
l’intercessione di Nuccia Tolomeo, fiduciosa di ottenere il miracolo. Il 30
gennaio ancora la situazione era immutata. Anche se i riscontri ecografici non
erano positivi, non persi la fiducia e continuai a pregare con più intensità
Nuccia.
Da quel giorno iniziò un processo, il cui esito favorevole lo scoprii l’11
febbraio, quando feci la successiva ecografia presso il Dottore Francesco
Quintieri, che mi seguirà fino al parto. La sera precedente, prima di
addormentarmi recitai le solite preghiere a Dio e invocai Nuccia. Nella notte
feci un sogno; sognai Gesù con un vestito color avorio e una fascia bordeaux;
era bellissimo, non parlava ma sorrideva, donandomi un calice in oro con delle
pietre rosse al cui interno una bevanda rossa da bere.
Il giorno dopo, fatta l’ecografia, il dottore con gli occhi lucidi mi disse:
“Signora, il bambino si è spostato, per me è avvenuto qualcosa di grande, le
sue preghiere si stanno avverando”. Io ero felicissima e ringraziai subito Dio
e Nuccia per il miracolo avvenuto. Così piano piano arrivai alla 35° settimana
con tutta la calma e la serenità possibile. I mesi trascorrevano con la valigia
sempre pronta.
Giorno 5 agosto 2014, il miracolo fu pieno, un dono fantastico di Dio, mio
figlio Francesco. Il parto avvenne con taglio cesareo, perché la gravidanza si
presentava “accreta”. È stato un parto impegnativo; sono stata anche in sala
rianimazione per essere meglio monitorata. Lì ho capito che avevo subito
un’operazione complessa ma, in quel momento, in quella stanza isolata, ho
potuto pensare alla grandezza del Signore e rendergli grazie nel mio piccolo
per il grande dono ricevuto da Lui dopo avere invocato la Serva di Dio Nuccia
Tolomeo. Così è iniziata la mia nuova vita.
Un grazie particolare lo devo a mio marito che mi ha sostenuto in ogni
decisione presa, alla mia famiglia ed a quella di mio marito che non mi hanno
lasciato neanche un attimo da sola. Un altro grazie va al mio ginecologo,
Dottore Quintieri, per avermi aiutato a percorrere questa strada con serenità,
sostenendomi nella decisione e credendo sin dall’inizio che sarebbe andato
tutto per il meglio. Un immenso grazie a Padre Pasquale che, dopo avere
invocato Nuccia, da quella famosa domenica mi ha sostenuto fino alla fine della
mia avventura. Oggi sono felice di essere qui, nella Chiesa del Monte in
Catanzaro, dove riposano i resti mortali della Serva di Dio, per ringraziarla
per la nascita di Francesco, e glorificare il Signore per la grazia (miracolo)
ricevuta.
LETTERA PASTORALE DI MONS. VINCENZO BERTOLONE
PER LA BEATIFICAZIONE DI NUCCIA
1. Una “nostra amica” in cielo
Con grande gioia comunico a tutti i fedeli ed alle persone di buona
volontà dell’arcidiocesi di Catanzaro-Squillace che il Sommo Pontefice
Francesco ha ordinato che il Decreto di Beatificazione di Gaetana Tolomeo,
detta Nuccia (1936-1997) sia reso di pubblico diritto e sia riportato negli
Atti della Congregazione per le cause dei Santi.
Davvero Dio continua a scegliere in mezzo a noi, nel nostro territorio
calabrese e nella nostra Chiesa particolare, ciò che nel mondo è debole
(1Cor 1,27)! Davvero possiamo esclamare, con tutte le persone che hanno
conosciuto Nuccia Tolomeo in vita, che abbiamo oggi un’amica in cielo,
un’anima bella e santa di donna, soprattutto per il “modo” con cui ella ha
testimoniato in mezzo a noi la sua fede operosa, malgrado i gravissimi
impedimenti fisici ed una malattia deformante, cronica. Contemplando
e chiedendo l’intercessione della nuova Beata, ripeteremo spesso: «Tutto
posso in colui che mi dà forza» (Fil 4,13).
Primogenita di Salvatore Tolomeo e Carmela Palermo, Nuccia nacque a
Catanzaro, quartiere Sala, il venerdì santo (10 aprile) del 1936 (denunciata
all’anagrafe il successivo 19 aprile). Visse quasi tutta la vita, nella sua casa
natia non potendo muoversi perché colpita fin da piccola da un’incurabile
paralisi progressiva e deformante. Apprendiamo da due suoi scritti autografi
del 1954, - da lei chiamati Autobiografia e Diario di un’anima-:
«Un male fulmineo e misterioso mi aveva colpito alle gambe. Tutte
le cure furono inutili. Crebbi male!... Mi portarono da diversi medici,
specialisti, primari. Anche lì dissero la stessa cosa: “Niente da fare”. Nel
frattempo sopraggiunse la guerra».
A nulla valsero, per l’auspicato miglioramento della sua salute fisica, i
quattro anni e mezzo trascorsi a Cuneo presso una zia. Tornata a Catanzaro,
Nuccia poté frequentare la scuola solo fino alla quarta elementare. Pur tra
continue broncopolmoniti e gli ostacoli della sua diversa abilità, cresceva
apparentemente serena e gioiosa, però nel suo cuore c’era tumulto: si era innamorata di un ragazzo. Scrive nell’Autobiografia:
«Anch’io ho una sete di gioia e di vita. Il farneticare della mia
fantasia mi appaga in parte. Perché io non posso tramutare in realtà
questo sogno? questo fulgidissimo sogno? Chi a me ha negato l’amore,
l’incontro di un’anima su un sentiero fiorito per poter attraversare
insieme i meandri della vita? Arrivata a questo punto il cuore mi balza
alla gola e i singhiozzi mi impediscono di proferire parola. Nascondo
il viso tra i capelli e piango amaramente la mia vita giovane senza
giovinezza, di innamorata senza amore, di anima senza gioie future».
In quei momenti bui e dolorosi Nuccia imparò, grazie alla fede, alla vita
devota, al conforto della mamma, del padre spirituale e di altri sacerdoti,
di persone amiche consacrate e laiche, ad unire le proprie sofferenze
a quelle di Gesù Cristo, suo grande “modello”. E così, a mano a mano,
acquisì la consapevolezza che «come abbondano le sofferenze di Cristo in
noi, così, in virtù di Cristo, abbonda pure la grazia e il conforto (2Cor 1,5).
2. Le tappe dell’ascesi di Nuccia Tolomeo
La crescita spirituale, una vera e propria ascesi - fu progressiva e
graduale, come ogni maturazione umana, morale e cristiana. A quel
tempo la sensibilità comune non aveva ancora teorizzato l’esistenza d’una
diversa abilità delle persone, anche quando sono “costrette” dalla malattia
a stare immobili. Un po’ alla volta Nuccia scoprì, nel proprio cuore
il senso della nuova nascita nel giorno della passione e morte di Gesù;
scoprì infatti di non essere stata “maledetta” da una patologia invalidante,
bensì di essere stata chiamata, in quella condizione di dolore e sofferenza,
a seguire il Cristo sofferente per riparare il peccato di molti (cfr. Eb 9,28)
e per mostrare che ci sono vari modi per esercitare le diverse abilità della
persona umana, anche nelle condizioni più difficili e precarie.
Il mondo di familiari e amici le ruotava sempre più attorno e Nuccia,
spesso, dalla sedia o dal letto, dirigeva addirittura i giochi delle cuginette.
Ricama, lavora a maglia, creando quadri colorati col cosiddetto punto
assisi; o dedica parte del suo tempo alla lettura di Famiglia cristiana,
Il messaggero di sant’Antonio e di libri che le venivano dati in dono dai parenti, dalle amiche e soprattutto dalle suore paoline. Intanto coltivava la
preghiera, soprattutto il Rosario, e quando era possibile, si faceva portare
dalle amiche a spalla in chiesa, per ricevere l’Eucaristia. Sedicenne va in
pellegrinaggio a Lourdes, come racconta nel Diario di un’anima:
«Andai con un grande entusiasmo e una grande fede. Partii sola, con il
treno bianco della speranza. Arrivata lì, alla vista di quella grotta,
di quella sorgente benedetta, rimasi estasiata. Mi immersi con fede
in quell’acqua benedetta e pregai, non solo per me, anche per tutte
quelle misere creature che erano lì per lo stesso scopo. Al passaggio
di Gesù Eucaristia mi offrii vittima e pregai per la conversione dei
peccatori. Tornai a casa con la febbre a 40: di nuovo la polmonite.
Stetti male, ma in me c’era una nuova forza: soffrivo con più amore,
con più rassegnazione».
Pur non ottenendone la sperata guarigione fisica, manifesta ormai
una guarigione spirituale, ovvero una nuova tempra spirituale e grandi
capacità relazionali: lo dimostra la corrispondenza ricca di spirito cristiano
con anime elette, con alcuni sacerdoti ed alcune suore conosciute in casa.
Nuccia matura il concetto di alleanza sponsale con Gesù, che la porta a
offrirsi più volte vittima d’amore con lui sulla croce per la redenzione di
tutti, per la salvezza del suo papà, per la conversione dei peccatori e per la
santificazione dei sacerdoti.
Continua a soffrire molto, ma, pur tra gli alti dello spirito e i bassi delle
paure e dei timori di morir giovane, ama cantare le canzoni, religiose e
non, e le fa cantare alle cugine e ai figli dei vicini. Durante il festival di
SanRemo, stava ad ascoltare fino a notte fonda con l’orecchio attaccato alla
radio a volume basso. Il sorriso e l’accoglienza prevalgono, insomma, sugli
sgomenti e sull’inevitabile stato temporaneo di depressione che facilmente
monta in chi è costretto per sempre a letto e rischia di giudicare “inutile” la
propria esistenza. Anzi, «il periodo della vita di Nuccia dal 1967, quando
aveva 31 anni, al 1980, anno della morte del padre, possiamo definirlo
come il periodo in cui lei divenne il perno o il cuore della casa»
. E ciò
accade anche quando il dissesto economico riduce al lastrico la famiglia e tutto il piccolo gruppo familiare della nostra Beata.
Visitata da futuri eroi del calendario cattolico e perfino da personaggi
atei in cerca di confronto, ormai è Nuccia a confortare gli altri. Avendo
ben maturato il genuino senso della sofferenza cristiana, può comunicare
a laici, preti e suore con cui entra in contatto:
«L’amore di Gesù mi dà forza. Si soffre bene, quando si soffre insieme
a Gesù. Per imparare ad amare bisogna soffrire, perché il dolore è il
regalo dato da Gesù a quelle anime che accettano di soffrire con Lui
e per Lui».
Riesce, addirittura, ad animare il gruppo folk Due Mari-Città di
Catanzaro. Nel 1973 un gruppo di giovani del rione Sala, dove Nuccia
abitava, si ritrovarono nella sua casa per mettere in scena la passione
e morte di Gesù Cristo. L’albero storto nel corpo – come a volte si
autodefiniva la Beata - riesce insomma a dare ogni giorno frutti di gioia
e amicizia, anzi fa rinascere in molti il gusto di vivere! In questa linea si
spiega anche l’esordio della sua felice collaborazione con Radio Maria, in
particolare con Federico Quaglini nei primi mesi del 1994. Ormai, quello
era soltanto «il primo passo verso quella missione stupenda, ricca di frutti,
che Nuccia con zelo apostolico avrebbe portato avanti per qualche anno
da ‘conduttrice anomala».
Insomma, «da quel momento, nella casa di Nuccia, ogni ora della
giornata il telefono squillava tre-quattro volte da tutta Italia e anche
dall’estero. Tutti chiedevano consigli e preghiere»
. Questa la sua
convinzione ascetica, comunicata attraverso la radio:
«Noi che abbiamo capito e sperimentato l’amore del Signore, dobbiamo
essere i battistrada del Signore e tutti dobbiamo ammirare le sue
meraviglie, il suo amore misericordioso. Siamo noi che dobbiamo
preparare con la nostra sofferenza, con i nostri dolori, un trono di lode, sopra il quale Gesù deve sedere, perché Re del mondo e Re dei
nostri cuori».
3. Di fronte alle sofferenze inevitabili.
Che cosa significa soffrire per consentire a Cristo di regnare? Friedrich
Nietzsche, anima culturale dell’intero Novecento, aveva definito “morale
filistea” quella ispirata alle sofferenze di Gesù Cristo, ed aveva suggerito di
cercare le radici non nel cristianesimo, ma nella civiltà greca presocratica:
essa, infatti, non aveva esaltato il dolore e il masochistico attaccamento
alla sofferenza, ma aveva creato un vigoroso senso tragico dell’accettazione
della vita. Secondo il filosofo, infatti, il pagano Socrate, comportandosi
con coraggio dinanzi al fato e al dolore fino a pervenire ad un’esaltazione
dei valori vitali, avrebbe offerto una visione superiore a quella del Cristo
crocifisso, con l’affermare la tragicità della vita umana, contro ogni tipo di
dolorismo cristiano.
La Chiesa, invece, proclamando Nuccia Beata, riconosce la profondità
e le molteplici forme del dolore e della sofferenza se cristianamente
accettate:
«Può darsi che la medicina, come scienza ed insieme come arte del
curare, scopra sul vasto terreno delle sofferenze dell’uomo il
settore più conosciuto, quello identificato con maggior precisione
e, relativamente, più controbilanciato dai metodi del “reagire” (cioè
della terapia). Tuttavia, questo è solo un settore. Il terreno della
sofferenza umana è molto più vasto, molto più vario e pluridimensionale.
L’uomo soffre in modi diversi, non sempre contemplati dalla medicina,
neanche nelle sue più avanzate specializzazioni. La sofferenza è
qualcosa di ancora più ampio della malattia, di più complesso ed insieme
ancor più profondamente radicato nell’umanità stessa. Una certa idea
di questo problema ci viene dalla distinzione tra sofferenza fisica e
sofferenza morale. Questa distinzione prende come fondamento la
duplice dimensione dell’essere umano, ed indica l’elemento corporale
e spirituale come l’immediato o diretto soggetto della sofferenza.
Per quanto si possano, fino ad un certo grado, usare come sinonimi le parole “sofferenza” e “dolore”, la sofferenza fisica si verifica quando
in qualsiasi modo “duole il corpo”, mentre la sofferenza morale è
“dolore dell’anima”. Si tratta, infatti, del dolore di natura spirituale,
e non solo della dimensione “psichica” del dolore che accompagna sia
la sofferenza morale, sia quella fisica. La vastità e la multiformità
della sofferenza morale non sono certamente minori di quella fisica;
al tempo stesso, però, essa sembra quasi meno identificata e meno
raggiungibile dalla terapia».
L’infermità, insomma, può abbrutirci e spezzare le nostre relazioni con
gli altri e con noi stessi, ma può anche rappresentare l’occasione propizia
per una più profonda comprensione della vita, dei limiti intrinseci della
condizione umana, per l’assimilazione della propria condizione tragica alla
passione e morte del Signore Gesù Cristo. Per questo motivo, e con grande
acutezza, Gregorio di Nazianzo poté affermare che «noi non ammiriamo
qualsiasi specie di salute e non detestiamo qualsiasi malattia»: esistono,
infatti, forme di salute che possono alienare la ragione dell’uomo, così
come possono sussistere malattie che lo educano e lo rendono migliore,
anche se questo non avviene mai per un’azione diretta del dolore in sé (il
dolore inutile non redime mai), ma per il modo in cui noi affrontiamo
il dolore, continuando ad amare e ad accettare di essere amati da coloro
che ci stanno vicino. Certo, le sofferenze, in tutte le loro variegate forme
e modalità – come le tante sofferenze apportate nel mondo dai terribili
effetti della pandemia -, possono causare l’allontanamento da Dio; oppure,
come avviene in alcuni, essere vissute come il segno di un abbandono da
parte della provvidenza, o di una qualche “maledizione” di Dio.
Per Nuccia non fu così. Ed è per questo che la sua esistenza resta per tutti
una lezione, che ci aiuta a ripensare in ottica cristiana il senso del dolore
e della sofferenza, senza dolorismo e senza masochismo. Ella aveva intuito,
infatti, che il dolore-sofferenza, può avere un senso, se consapevolmente
associato all’amore nello Spirito Santo. Nel suo messaggio a Radio Maria "Che cos’è la sofferenza?" arriva a dire:
«La sofferenza è la vittoria dell’amore, … può diventare, per chi crede
nella salvezza di Cristo e nella vita eterna, un atto di amore per Dio
e per tutta l’umanità. … non è legata a una colpa o a un castigo…
Non siamo degli sconfitti, dei deboli, ma siamo discepoli di Cristo».
Attualizzando nella sua esperienza il concetto che aveva espresso,
prosegue:
«Se (Dio) ha permesso che io soffra così, è perché Lui ci vede un bene
che io non conosco in tutta la sua profondità. La mia accettazione e la
mia serenità sono legate alla fiducia che il Padre non mi abbandonerà
mai. Grazie alla luce della fede, si può penetrare più a fondo il mistero
del dolore e della malattia, sopportando tutto con maggior fortezza.
Cristo ha valorizzato la sofferenza, impedendo che restasse senza
valore… La sofferenza ha visitato il mio corpo, è entrata nella mia
carne e non mi lascia né il giorno, né la notte e io continuo a pregare
lunghi rosari, … ma soprattutto dico: “Signore, sia fatta la tua volontà”.
E non mi sento mai sola. Molti sono gli amici, che mi vengono a trovare,
ma soprattutto, Lui, il Cristo, è con me, soffre con me, è nella mia carne
martoriata; e nel mio spirito travagliato sono certa che si riflette
splendida l’immagine di Dio Padre. La forza d’animo, la perseveranza,
la fiducia, conquistata dopo lo scoraggiamento, l’attingo sempre nella
sua Parola…. celebro il dolore, con la speranza, anzi con la certezza,
della risurrezione. La croce è la strada per risorgere ... è un celebrare
nella propria carne la passione di Cristo che porta alla risurrezione…
Ancora un poco e poi saremo nella gioia».
Nuccia Tolomeo non solo trova la comprensione del mistero del
dolore nell’amore di Dio Padre, che permette il sacrificio cruento del
Figlio incarnato, ma arriva anche a sublimare cristianamente il dolore/
sofferenza in quanto generatore di vera gioia evangelica (evangelii
gaudium!). Nel messaggio a Radio Maria "La gioia nella sofferenza" dice:
«La gioia nella sofferenza è un dono, è necessario richiederla allo
Spirito Santo con insistenza; dobbiamo attingerla nell’amore salvifico
di Cristo, dalla sua croce… Dobbiamo dare a Gesù il “sacrificio” di essere
felici… Nel donarmi al Signore con amore (l’essenziale è l’amore!) sono
felice nella sofferenza, perché realizzo la mia vocazione: amo e sono
amata. Sorelle, fratelli, dobbiamo essere gioiosi, pieni di speranza. La
gioia è il segno del cristiano, della nostra fede. Dio ci vuole sempre
lieti. Lo Spirito di Dio ci doni la vera gioia; stiamo sereni, lasciandoci
condurre docilmente dal nostro buon Pastore sui suoi pascoli, perché
la sua gloria si manifesti in mezzo a noi. Andiamo dunque, con gioia
incontro al Signore che viene, lodiamolo con tutto il cuore, cantiamo
la sua presenza, gioiamo, perché ci ama e ci perdona. Alleluia!».
In un successivo messaggio a Radio Maria, (C’è gioia anche nella
sofferenza), Ella conferma le idee precedentemente espresse con la
testimonianza della propria vita:
«Grazie al dono della fede, vivo la mia esperienza di donna, paralizzata
da più di 50 anni, serenamente, come se non soffrissi, considerandomi
un piccolo tralcio della vita di Cristo, il quale patisce e vive in me
tutti i giorni, rendendo leggera la mia croce: soave pena sofferta
per lui. La Bontà di Dio ha preparato per me un corpo debole, malato,
bisognoso, per rendermi docile alla Sua volontà, lasciandomi tutta
la vita nel silenzio sulla croce, per maturare lentamente sentimenti
di gratitudine verso Dio e verso i fratelli, per gustare la vera pace
del cuore, per apprezzare ogni cosa e accorgermi delle meraviglie
del creato, intendere e vivere la vita come dono, come servizio. La
mia totale dipendenza dagli altri è stata, infatti, per me una continua
scuola di umiltà, che mi ha reso sempre più mite e riconoscente,
conservandomi uno spirito infantile, che mi consente ancora di gioire e
di stupirmi per tante piccole grandi cose, per ogni gesto d’amore. Alla
scuola della sofferenza ho scoperto il valore della solidarietà e della
condivisione, ho preso coscienza che ogni vita è sacra, perché è una
chiamata di Dio al suo servizio. Alla luce della fede ho compreso che
anch’io, per quanto debole e malata, posso e devo rispondere con amore
alla Sua chiamata, perché tutti siamo preziosi agli occhi del Signore:
ognuno ha qualcosa da offrirgli. Riflettendo bene sui doni ricevuti,
ho capito che cosa Dio voglia da me: la sofferenza. Sollecitata da una
profonda gratitudine per Lui, ho così imparato a soffrire ed offrire,
imitando, per quanto mi è stato possibile, Cristo, maestro di amore e di
dolore. È Gesù Crocifisso il mio modello di vita e, per amore suo, amo i
fratelli come me stessa e offro ogni giorno la mia vita per loro. Allo
stesso tempo, mi esercito a gioire nella sofferenza, lamentandomi il
meno possibile, sorridendo a tutti, sottomettendo giorno per giorno
la mia carne alle esigenze degli altri. Così la mia sofferenza diventa
ogni giorno un prezioso talento, che il Signore mi dà e che io cerco
di trafficare il più proficuamente possibile, felice di collaborare al
progetto del Padre ed essere madre, sorella, amica di tanti fratelli».
4. Il dolore non è mai inutile.
Due mesi prima di morire, consapevole di essere una donna crocifissa
col Crocifisso, Nuccia dice di sé ai giovai di Sassari:
«Ho 60 anni, tutti trascorsi su un letto; il mio corpo è contorto, in tutto
devo dipendere dagli altri, ma il mio spirito è rimasto giovane. Il segreto
della mia giovinezza e della mia gioia di vivere è Gesù. Alleluia».
Come può una così grave disabilità essere vissuta senza lamenti, anzi
esprimendo gioia anche in quel suo vivere? Nel passato come nel presente,
alla visione cristiana è stata rivola l’accusa di un inutile esasperazione del
dolore e della sofferenza, ma l’accusa è infondata.
San Giovanni Paolo II nella Lettera Apostolica Salvifici Doloris dell’11
febbraio 1984, riconosce che per l’uomo di oggi:
«fonte di gioia diventa il superamento del senso d’inutilità della
sofferenza, sensazione che a volte è radicata molto fortemente
nell’umana sofferenza. Questa non solo consuma l’uomo
dentro sé stesso, ma sembra renderlo un peso per gli altri.
L’uomo si sente condannato a ricevere aiuto ed assistenza
dagli altri e, in pari tempo, sembra a sé stesso inutile. La
scoperta del senso salvifico della sofferenza in unione con
Cristo trasforma questa sensazione deprimente. La fede nella
partecipazione alle sofferenze di Cristo porta in sé la certezza
interiore che l’uomo sofferente “completa quello che manca ai
patimenti di Cristo”; che nella dimensione spirituale dell’opera
della redenzione serve, come Cristo, alla salvezza dei suoi fratelli e sorelle. Non solo quindi è utile agli altri, ma per di più adempie un
servizio insostituibile».
Di fronte all’esistenza sofferente, ma gioiosa (non è una contraddizione
in termini!) di Nuccia Tolomeo, crollano tutte le accuse di “dolorismo”,
di “patologia masochistica”, di “sofferenza inutile”: chi accetta
consapevolmente il dolore umano, anche se ingiusto, e lo associa con
fede all’uomo dei dolori (Is 53,3), Gesù Cristo, non solo apprezzerà di più
la vita, anche quella ritenuta dagli altri “inutile”, ma invoglierà tutti gli altri
a vivere con gioia quanto ci viene donato per il fatto stesso di essere stati
messi al mondo. Nulla è impossibile a Dio! Da lui viene anche la possibilità
di contribuire, con diversa abilità, all’accettazione consapevole di una
situazione patologica, alla costruzione di profonde relazioni interumane
e alla stessa vita del cosmo e, soprattutto, alla trasfigurazione cristica della
sofferenza umana e della stessa creazione (cfr. Rm 8,22-23).
5. Dolore e sofferenza possono essere “trasfigurati”.
Oggi la coscienza nostra cerca giustamente di attenuare, sia nelle
degenze ospedaliere (dove l’evoluzione del dolore viene annotata
anche in cartella clinica), sia nella vita quotidiana, il dolore fisico e i
disagi psicologici e mentali che spesso l’accompagnano. Tutti infatti,
anche i cristiani, dicono no al dolore inutile, ma non ritengono inutile
la libera accettazione della sofferenza a imitazione del Christus passus.
La riflessione morale e bioetica ci hanno molto aiutato, negli ultimi
cinquant’anni, a conoscere le dinamiche (soprattutto quelle percettive del
soggetto umano) del dolore fisico. L’esistenza del dolore fisico, soprattutto
se acuto, è considerata una specie di “campanello di allarme” su uno
stato patologico, che ci avvisa affinché possiamo pensare ad opportune
precauzioni. La medicina analgesica e le terapie palliative hanno fatto
passi da gigante nel mondo, con la possibilità di lenire, attutire, palliare il dolore fisico inutile, soprattutto quando si sia giunti alla cosiddetta fase
terminale dell’esistenza, allorquando cioè la stessa medicina non è più in
grado di far regredire la malattia e si limita, perciò, a migliorare la qualità
della vita nella fase di accompagnamento del malato terminale all’ultima
stagione della sua vita terrena:
«La sofferenza umana desta compassione, desta anche rispetto, ed
a suo modo intimidisce. In essa, infatti, è contenuta la grandezza di
uno specifico mistero. Questo particolare rispetto per ogni umana
sofferenza deve esser posto all’inizio di quanto verrà espresso qui
successivamente dal più profondo bisogno del cuore, ed anche dal
profondo imperativo della fede. Intorno al tema della sofferenza
questi due motivi sembrano avvicinarsi particolarmente tra loro ed
unirsi: il bisogno del cuore ci ordina di vincere il timore, e l’imperativo
della fede […] fornisce il contenuto, nel nome e in forza del quale
osiamo toccare ciò che sembra in ogni uomo tanto intangibile: poiché
l’uomo, nella sua sofferenza, rimane un mistero intangibile».
In Italia, dopo l’approvazione di una specifica Legge sulla terapia
analgesica, di una Legge sulle dichiarazioni anticipate di trattamento,
rinforzata ultimamente dalla depenalizzazione dell’aiuto al suicidio, alcuni
credono, tuttavia, che dire no al dolore inutile significhi poter diventare
onnipotenti padroni della vita e del dolore, fino a decidere anticipatamente
di non voler continuare ad accettare determinate terapie, anche salvavita
(come la nutrizione e l’idratazione artificiale), preferendo addirittura
allontanarsi da una vita che, senza l’occhio della fede, viene giudicata
ormai irrimediabilmente dolorosa, al punto che non varrebbe più la pena
di vivere una vita dalla scarsa, come si usa dire, qualità.
6. Il dolore può essere salvifico
La sofferenza, carissimi, deve essere guardata con gli occhi dell’umanità
e della fede: oltre ad essere una reazione fisiologica e psicologica al dolore,
può essere anche il conferimento di senso che l’individuo umano è in grado
di conferire all’esperienza, anche dolorosa o depressiva, che sta vivendo. In altre parole, attraverso questa esperienza, ci viene raccontata la storia
dell’individuo e delle sue possibilità di trovare in sé e nel contesto le risorse
di risignificazione del male e del dolore. E poiché nessuno, nonostante
i progressi della medicina e delle scienze, è del tutto e sempre immune
dalla sofferenza, ecco che la storia di Nuccia Tolomeo diventa la storia
dell’umanità e della società contemporanea, nonché l’errata reazione di
essa a questa esperienza di sofferenza: una reazione che racconta una
forte individualizzazione, che giudica la vita soltanto dalla sua “qualità”
percepita, generando paura per la malattia in ogni sua forma, terrore per
ogni forma di dolore, fino a concepire l’altro, ogni altro, solamente come
soggetto di paura e fonte di sofferenza-dolore.
Ricordiamo che anche Nuccia ha vissuto, come ogni essere umano,
il dramma della sofferenza, accompagnato dalla tentazione dello
scoraggiamento. Quale risposta cristiana a questi e altri interrogativi sul
dolore e la sofferenza ci vengono suggeriti dalla nostra Beata? È proprio
impossibile inaugurare un’ascesi di trasfigurazione del dolore, quando
esso risulta davvero inevitabile e generatore della “voglia di mollare”?
La cugina di Nuccia, Wilma (moglie del cugino giudice Pino Palermo),
residente a Genova, in una lettera del 1974 le scrisse con amore filiale:
«Carissima Nuccia, una cosa ti chiedo: non dire mai quelle brutte
tristezze che hai detto ieri sera a Pino (ci hai fatto piangere). Lo so
che ti senti male e ti vengono brutte idee in testa, ma hai avuto sempre
tanta forza, tanto coraggio, vuoi mollare proprio adesso? Pensa che
devi vivere a lungo per tutti noi che ti vogliamo bene, pensa che tua
madre esiste perché esisti tu; non dimenticarlo mai, hai capito? Io, per
quel poco che può valere la mia preghiera, ti ricordo sempre a Gesù e
so che ti aiuterà perché hai tanti meriti, sei una santa. Abbracci, tua
Wilma».
Con la grazia di Dio e tanta ascesi, Nuccia approda - con Cristo,
per Cristo e in Cristo -all’accettazione della propria sofferenza e alla trasfigurazione del proprio stato esistenziale di debolezza, di dolore,
fino a diventare un tabernacolo vivente del Signore in Croce, come si può
verificare nel messaggio autobiografico per la Pasqua 1995, letto da lei
attraverso Radio Maria:
«Nella sua infinita misericordia e sapienza, il Signore ha preparato
per me un corpo debole, per il trionfo della sua potenza d’amore […].
Lodo e benedico il Signore per la croce, di cui mi ha fregiata, perché,
crocifiggendo la mia carne, ha pure crocefisso i miei pensieri, i miei
affetti, i miei desideri, e persino la mia volontà, per fare di me sua
gradita dimora, suo compiacimento, suo tabernacolo vivente. Grazie
alla croce di Cristo, oggi posso affermare con l’apostolo Paolo ‘Non
sono più io a vivere, è Cristo che vive e opera in me’. Grazie alla croce,
la mia vita, apparentemente spezzata, sterile, vuota, ha pian piano
acquistato significato. Anche nella malattia, nella sofferenza, una
creatura come me ha potuto e può ancora rendersi utile, offrendo a
Dio i meriti della sua croce, in unione a quella di Cristo, ed elevare
preghiere di intercessione per la salvezza dell’umanità […]. Uniti a
Cristo, è possibile perfino amare la croce e soffrire con dignità, pronti
a consegnarci nelle mani di Colui che, solo, sa trarre dal dolore la
gioia».
7. La “lezione” di Nuccia Tolomeo
La pur illetterata e malata Nuccia ci offre un’attuale, particolare lezione
di ascesi della corporeità umana. Guardando a lei e imitandola, possiamo
affermare che accettare una corporeità caratterizzata dal dolore è possibile,
senza masochismo e senza neppure lamentarsi con l’Altissimo.
Piuttosto, in controtendenza rispetto a certe interpretazioni
razionalistiche del dolore, Nuccia sollecita a ripetere con San Paolo: «Non
vivo più io, ma Cristo vive in me» (Gal 2,20). Mentre qualcuno continua ad
accusare ancor oggi il cristianesimo di aver privato della genuina nobiltà
cristiana gran parte degli uomini sofferenti nel corpo o nella mente la
chiave interpretativa di Nuccia è ben diversa: è una password ascetica sulla
sofferenza; ovvero ci dice che è possibile soffrire con amore e per amore, qua si è uniti a Gesù crocifisso.
Se ripensata in relazione al corpo che siamo/abbiamo, la vita umana non
si potrà più limitare ai pur importanti temi dell’analgesia, della sedazione,
anche terminale e neppure alle dichiarazioni anticipate di trattamento, o
alla palliazione dei malati terminali. Piuttosto, alla luce della vicenda di
Cristo, si dovrà riconoscere che tutto è nelle mani della provvidenza e,
anche di fronte alla diversa abilità o al dolore più terribile e invincibile con
mezzi umani, le domande di fondo dovranno andare sempre oltre e far
riemergere le domande di senso, che il cristianesimo sa svolgere alla luce
del Cristo crocifisso: qual è il significato del dolore, del male, della morte
-che, malgrado ogni progresso-, continuano a sussistere nella nostra vita?
Fino a dove può spingersi il libero arbitrio, quando in gioco c’è non la libera
autodeterminazione ma l’alienazione della propria dignità personale?
Si può essere davvero gioiosi anche nella diversa abilità, nella malattia
e nell’impedimento fisico? Perché le tentazioni suicide per abbreviare
un’esistenza reputata inutile, sono una falsa e infondata soluzione?
Vivendo in pienezza il battesimo ed esercitando le virtù umane e
cristiane sotto la mozione dei doni dello Spirito Santo, la nostra Beata ci
ha dato una mirabile lezione di vita gioiosa pur nella diversa abilità e nella
profonda sofferenza, sintetizzata in un modo sublime nel suo Testamento
spirituale, letto da lei a Radio Maria, un anno prima di morire. Esso è
un inno di grazie, un magnificat, per tutto quello che il Signore le ha
dato: la fede, la sapienza della croce, le meraviglie della natura, la gioia,
la vita, la mamma, gli amici. Quando a sé medesima ringrazia il Signore
per aver fatto di lei il suo corpo, la sua dimora, l’oggetto prezioso del suo
amore compassionevole. L’apice viene toccato allorché eleva una preghiera
di fiducia e ringraziamento per il dono dell’immobilità:
«Voglio ringraziarti in modo particolare per il dono dell’immobilità,
che è stato per me una vera scuola di abbandono, di umiltà, di pazienza
e di gratitudine... State lieti nel Signore... Siate custodi dei vostri
fratelli e insegnate loro l’amore con la vostra stessa condotta.
Siate saldi in tutto, coerenti al vangelo, pieni di zelo e d’amore per
tutti. Ricordate che dall’amore riconosceranno che siete di Cristo;
solo dalle opere buone molti saranno indotti a credere in Dio Amore.
Solo l’amore salva... Sorridete sempre. Ogni volta che sorriderete, io
sorriderò con voi».
Considerando tutto questo e dopo avere riflettuto sulle virtù teologali
e umane vissute in modo straordinario da Nuccia Tolomeo, la Chiesa il 6
aprile 2019, per volontà di papa Francesco, ha promulgato il Decreto super
virtutibus, che la rende Venerabile.
Oggi, a distanza di poco più di un anno, ella, fedele cristiana laica, viene
elevata agli onori degli altari, dopo che il Santo Padre ha riconosciuto un
miracolo operato da Dio per sua intercessione. Riguarda la situazione della
signora Ida Carella, di Crotone, nello specifico la sua gravidanza extrauterina,
allocata in sede istmica (cervice dell’utero), il cui esito sarebbe stato infausto,
secondo la scienza medica, l’11 febbraio 2014, dopo che la signora aveva
invocato Nuccia Tolomeo, il ginecologo, nel praticare, l’ecografia, notò che
la gravidanza stava seguendo “inspiegabilmente” un percorso regolare, fino
al lieto evento del 5 agosto 2014: nulla è impossibile a Dio (cfr. Lc 1,37)!
8. Conclusione: “la musica più bella”.
Ora che la Chiesa l’ha proclamata Beata, noi, ringraziando la Trinità
Santissima, possiamo prestare culto e venerazione a questa piccola grande
donna della nostra arcidiocesi: Gaetana Tolomeo, che io amo chiamare
la resiliente del Cristo Crocifisso: a motivo della sua sofferenza sublimata
dalla fede cristiana e dall’eccelsa capacità umana e cristiana di risalire la
china del dolore per annunciare a giovani e adulti la gioia del Vangelo.
Ne segnalo a tutti, la bella figura, soprattutto ai giovani del nostro
territorio calabrese e meridionale, che uniscono il desiderio di volare
alto, alla paura di cadere. La propongo volentieri, come “modello”, anche
ai “diversamente abili” - anziani, adulti e giovani -; ai malati allettati,
ai sofferenti che talvolta cedono alla disperazione e invocano dalla
comunità, prossimità, aiuto, vicinanza, catechesi, incoraggiamento.
Nuccia è un plausibile e convincente modello di vita cristiana anche in
condizioni deprecabili o estreme, anzi è come il battistrada del Signore per
chiunque soffra nel fisico, nel corpo, nel cuore e nella mente. Da oggi in
poi, tutti potremo chiedere la sua intercessione presso Dio, soprattutto noi
condiocesani di Catanzaro-Squillace. Il messaggio umano e cristiano della
Beata Nuccia Tolomeo è chiaro: il bene è possibile e la gioia è dietro l’angolo:
basta volerlo. Nessuna condizione di sofferenza, emarginazione, esclusione e
abbrutimento è senza uscita!Anche tra le note stonate di una vita, che mostra
talvolta i suoi anfratti di dolore e di sofferenza, è possibile ascoltare la musica
della speranza cristiana! Valga come esempio questa breve corrispondenza
tra G.T. un giovane detenuto tossicodipendente che teme di ricadere sulla
china della droga e la nostra Beata (Prato, 20 giugno 1996), che lo incoraggia
a resistere e a risalire la china:
«Ciao, cara Nuccia, ho 23 anni e sono solo, ho sempre vissuto in solitudine.
Ora mi trovo in carcere, perché sono un tossicodipendente. Perciò puoi
immaginare come ho vissuto. Io tra poco esco e la mia paura maggiore
è ritornare nella droga. Io qui in cella sono solo; l’unica compagnia è
un ragno, che io gli ho messo nome “Gigia” e gli voglio bene… Io scrivo
canzoni, poi con la chitarra provo a suonare, ma non me ne viene una
buona, però io ci provo, finché non riesco a fare qualcosa. Poi mi piace
tanto ascoltare Pino Daniele e altri, … ti saluta anche Gigia…».
«Mio caro G., fratello in Gesù e Maria,
hai trovato un’amica. Con molto piacere ti scrivo e sono contenta
di sentire che presto uscirai, ma ti raccomando: “sii forte, non farti
trascinare dalle cattive compagnie e tieniti lontano dalla droga.
Affidati al Signore, prega e vedrai che ce la farai a vincere questa
battaglia dura. Entra in qualche comunità, che ti aiuterà e avrai
anche tanti amici. Di me che dirti: sono una creatura molto sofferente,
sono paralizzata fin dalla più tenera età e il mio corpo è deformato; la
paralisi è deformante e progressiva. I miei compagni sono Gesù e Maria,
ma vengono anche a trovarmi tante persone e ascolto sempre radio
Maria”. La musica più bella per me è la parola di Gesù: mi dà tanta forza,
pace e gioia. Ti abbraccio. Nuccia».
Preghiera:
Grazie, o Trinità Santissima,
per aver donato a queste nostre
terre generose e forti
il candido fiore di Nuccia
che rigoglioso sbocciò nell’amore di Dio.
Tanti di noi la ricordano
fin da quando, bambina,
non poté camminare.
Tanto dolore, una famiglia distrutta!
Ma dopo la Prima Comunione
ella interamente a Cristo si votò
in quella sua sequela
che durò finché si spense.
“La sofferenza - diceva -
è il trionfo dell’amore…”.
Questo amore lei seppe dare
attorno a sé con gesti, con parole,
anche scrivendo, a gloria
di Cristo, suo dolce sposo.
Quand’ella morì, già da tempo
aleggiava la fama della sua santità.
O Padre, per intercessione
della Beata Gaetana, concedici
la grazia che ti imploriamo. Amen.